Vi sono tutti i presupposti per immaginare una concentrazione del settore nelle mani di pochi attori in grado di mobilitare grandi risorse e stare al passo dell’innovazione. Per gli altri il profitto va cercato altrove
Nulla di nuovo sotto il sole. Da quando ormai molti lustri fa ho iniziato a seguire il settore, l’assicurazione auto, obbligatoria per legge, continua a dominare la scena nei rami danni, concentrando il 50% percento dei premi raccolti. Nel 2018 a fronte di una raccolta di circa 16 miliardi di euro per assicurare il parco auto, gli italiani ne hanno spesi solo 17 a protezione della casa, della salute e del patrimonio. Cifra che si riduce a 8 miliardi se scorporiamo i premi versati dalle imprese.
«Una cifra ridicola se confrontata con i 107 miliardi spesi in giochi e lotterie», è stato il commento sferzante pronunciato recentemente a un convegno dal presidente dell’Ivass Fabio Panetta. Siamo in presenza di un’arretrata cultura assicurativa sia delle famiglie, sia delle imprese, che non si è sviluppata di pari passo con la trasformazione del paese nel dopoguerra, come se l’evoluzione sociale fosse stata più lenta di quella economica.
La cronica sotto assicurazione degli italiani, che si affidano più alla sorte che all’apprezzamento razionale dei costi/benefici di un contratto assicurativo, è fotografata dal confronto impietoso con i principali paesi europei. L’incidenza dei premi danni non auto sul Pil è in Italia pari all’1% rispetto a una media europea del 2,6% e il premio medio per abitante del nostro paese è di 279 euro contro i 519 degli spagnoli, gli 865 dei francesi i 996 dei tedeschi e i 3.259 degli olandesi.
Eppure l’auto, che pesando il 50% dei premi danni sappiamo essere centrale negli equilibri economici di buona parte delle compagnie e della distribuzione agenziale, ha rappresentato nel 2018 solo il 25% del saldo tecnico del settore e ciò grazie agli utili finanziari e al rilascio di riserve degli esercizi precedenti.
Il puro saldo tecnico dell’esercizio corrente, che non considera questi contributi, è in realtà negativo per il terzo anno di fila (-405 milioni di euro nel 2016; -512 nel 2017 e -362 nel 2018). Un’erosione dovuta alla persistente concorrenza di prezzo che ha comportato una diminuzione dei premi auto nel periodo 2011-2018 del 25,5%, andamento che continua peraltro nel 2019 (-1,5%) come rilevano i dati del Bollettino Ivass relativi al secondo trimestre 2019.
D’altronde l’assicurazione auto è considerata dai clienti sempre più un prodotto commodity, anche a causa di una certa “pigrizia” delle imprese nel cercare l’equazione sostenibile per superare l’atavico conflitto di interessi con il proprio cliente. La crescente trasparenza del mercato offerta dai comparatori di prezzo, con 10 milioni di preventivi unici all’anno, circa un terzo del parco autovetture circolanti, fornisce il quadro di quanto i modelli di consumo si stiano ibridando e i rigidi schemi delle imprese fra distribuzione tradizionale e diretta siano destinati presto o tardi a saltare e convergere. Dieci milioni di preventivi e di confronti di prezzo, che oggi producono un milione di contratti all’anno, rappresenteranno in realtà un eccezionale carburante alla liquidità del mercato quando le compagnie faranno ripartire un ciclo di “hardening” dei prezzi per riequilibrare i conti.
In questa situazione ne approfitteranno le compagnie più tecniche ovvero quelle che sapranno discriminare meglio i rischi con modelli aggiornati frequentemente, con l’utilizzo di molte variabili comportamentali e di score calcolati con tecniche di big data, con l’introduzione di modelli predittivi antifrode, ma anche modelli di convertion e di churn per calibrare correttamente il prezzo commerciale e servizi innovativi nella liquidazione dei danni.
Queste compagnie sapranno aumentare i prezzi selettivamente, divaricando la forbice competitiva con le compagnie meno sofisticate e riuscendo dunque a crescere profittevolmente in una arena molto complicata.
Ma al di là della normale dinamica competitiva, il comparto auto sarà destinato lentamente nel tempo a una profonda trasformazione. Il cambiamento dei modelli di consumo della clientela sarà particolarmente rilevante nel campo della mobilità, dove, soprattutto nelle grandi città, il possesso dell’automobile verrà messo in discussione dalla disponibilità di servizi di car sharing, da nuovi servizi di mobilità tipicamente urbani e utili negli spostamenti brevi (bici e monopattini), dalla connessione con treni ad alta velocità e dalla sostenibile condivisione dei beni. Anche chi manterrà l’auto per “fede” o per necessità farà sempre più uso di formule di noleggio a lungo termine. In sintesi, un parco auto circolante che si ridurrà nel tempo e un business che si trasformerà progressivamente da b2c a b2b, con poche, grandi commesse gestite da agguerriti procurement department.
Infine, le automobili sempre più assistite, e chissà un giorno completamente autonome, diminuiranno la frequenza sinistri, riducendo il costo degli indennizzi. Questa riduzione del “burning cost” sarà trasferita con la dinamica competitiva al consumatore che godrà dunque nel tempo di premi sempre più bassi. Un comparto auto così compresso sarà ancora in grado di sostenere i 2,8 miliardi di spese che attualmente assorbe?
Vi sono tutti i presupposti per immaginare un’onda di concentrazione del settore auto nelle mani di pochi grandi attori in grado di mobilitare risorse finanziarie e cervelli per stare al passo dell’innovazione e realizzare le economie di scala necessarie alla sfida.
Il futuro è dunque fuori dall’auto, alla ricerca di nuovi profit pool. Il punto di partenza non è comodo: una clientela che non è stata educata e coltivata alla coscienza assicurativa e un settore con molti legacy e lontano dai propri clienti. Scegliere il giusto timing della trasformazione sarà come sempre cruciale per il successo dell’impresa.
Giuseppe Dosi,
Head of Insurance CRIF
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